La storia
della letteratura italiana è una miniera di aneddoti riguardanti il “nobil”
gioco.
Tra i vari
generi può apparire interessante effettuare un’escursione nel mondo della
novella (uno degli ambiti più fortunati, imitati ed esportati della nostra
tradizione letteraria).
Naturalmente
l’incipit di un ragguaglio su scacchi e novella non può che iniziare dal Decameron di Boccaccio.
Com’è
notorio, la finzione narrativa in cui si snoda la cornice della narrazione
prende le mosse dalla voglia di vivere, di sconfiggere la peste e il suo nero
carico di morte, che induce l’allegra brigata composta da 10 giovani (7 donne e
tre ragazzi) a rifugiarsi nel contado dove, allora, si trovava la chiesa di S.
Maria Novella.
Fin da
subito, nel discorso di Pampinea, appare chiaro che il gioco svolge una
funzione piacevole, per così dire alternativa e concorrenziale alla dimensione
letteraria, rispetto alla quale, tuttavia, esercita una potenza dimezzata.
Infatti la narrazione e l’ascolto
producono quell’esorcismo, quella rimozione della morte che procura nell’ “attore”
come nello spettatore- ascoltatore- lettore, un piacere totale e senza riserve.
Invece, a
parere della letteratissima Pampinea, il giocatore di scacchi non prova un
piacere totale o comunque il piacere prodotto dal gioco è sempre accompagnato
dal turbamento (frutto della necessità di concentrarsi attivamente, di
formulare una strategia, a cui si unisce il dispiacere per la sconfitta)
(Giornata I, introd. Cap. 28):
Qui è bello e fresco stare, e hacci, come
voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all'animo
gli è più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si
seguisse, non giucando, nel quale l'animo dell'una delle parti convien che si
turbi senza troppo piacere dell'altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il
che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa
calda parte del giorno trapasseremo.
(Ci
sarebbero da obiettare due considerazioni: il coinvolgimento psichico nelle
partite amichevoli è al minimo: predomina, infatti, il piacere estetico, la
consapevolezza del piacere del gioco in se. D’altronde nelle partite
agonistiche, da torneo, non è forse il brivido della tensione, l’aria che si
respira, una delle componenti principali che inducono alla partecipazione?)
All'inizio
della terza giornata, la regina Neifile (a turno, ogni giorno, per un giorno,
uno dei protagonisti viene insignito del titolo regale che consiste nel
disciplinare le narrazioni e nello stabilire i temi su cui verteranno le
novelle), dopo che l'allegra brigata ha mangiato, ballato e cantato presso un luogo meraviglioso che
sembra il paradiso terrestre, impreziosito da giardini profumati e incantati,
lascia libera a chi volesse, di andare a
riposarsi, ma alcuni, vinti dalla bellezza del luogo, si fermano a svolgere attività piacevoli, come
leggere romanzi o giocare a scacchi: (III, Introduzione):
De'quali chi vi andò [a dormire] e chi,
vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle, ma, quivi dimoratisi, chi a
legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole, mentre gli altri
dormiron, si diede.
In (III,
Conclusione), in attesa della cena alcuni giocano a scacchi anche donne:
Filomena e Panfilo si diedono a giucare a
scacchi
In (VI,
Introduzione) si parla degli scacchi:
E quivi, essendo già le tavole messe, e ogni
cosa d'erbucce odorose e di be'fiori seminata, avanti che il caldo surgesse
più, per comandamento della reina si misero a mangiare. E questo con festa
fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre
cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole.
In (VI
conclusione), Dione viene incoronato re
e le donne scherzosamente, lo mettono
alla prova, per vedere se sa reggere bene le donne, spiritosamente (e
non senza un doppio senso) il re dichiara che sono belli e più preziosi i re degli scacchi:
Assai volte già ne potete aver veduti, io
dico delli re da scacchi, troppo più cari che io non sono; e per certo, se voi
m'ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi farei goder di quello senza il
che per certo niuna festa compiutamente è lieta. Ma lasciamo star queste
parole: io reggerò come io saprò.
Solo nella
finzione (a teatro, nella letteratura,
come nel gioco degli scacchi) troviamo la rappresentazione della morte simulata
eroica, senza alcuno spreco energetico carico d’angoscia da parte della nostra
psiche.
È a partire
dal Decameron che nella cultura occidentale laica si
diffonde una cultura del piacere, della raffinatezza del piacere, in lotta
contro thanatos, la paura della
morte.
Si potrebbe
concludere, citando un passo del padre della psicanalisi che accomuna insieme
teatro, letteratura e scacchi (chissà quante teorie saranno state elaborate
nello studio di Berggasse 19, a Vienna, di tra una partita e l’altra?)
(S. FREUD, Considerazioni
attuali sulla guerra e la morte, [ 1915], Torino, 1971 52):
là [a teatro e nella
letteratura]troviamo ancora uomini che
sanno morire; sì, uomini anche capaci di uccidere. Là soltanto si verifica la
condizione che sola potrebbe
riconciliarci con la morte: e cioè la conservazione, attraverso a tutte le
vicissitudini della vita della vita, di una vita, la nostra, come tale
intangibile. È troppo triste infatti che nella vita possa accadere come in una
partita a scacchi dove una mossa falsa può costringerci ad abbandonare il
gioco: con l’aggravante che qui non possiamo contare sopra una seconda partita,
sulla rivincita. Nel campo della finzione troviamo invece quella pluralità di
vite di cui abbiamo bisogno. Moriamo nella nostra identificazione con un eroe
ma insieme anche gli sopravviviamo e siamo pronti a morire una seconda volta in
modo altrettanto innocuo, con un altro eroe.
BERNARDO PULEIO
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