sabato 14 aprile 2012

Quando gli scacchi danno scaccomatto alla morte


La storia della letteratura italiana è una miniera di aneddoti riguardanti il “nobil” gioco.
Tra i vari generi può apparire interessante effettuare un’escursione nel mondo della novella (uno degli ambiti più fortunati, imitati ed esportati della nostra tradizione letteraria).
Naturalmente l’incipit di un ragguaglio su scacchi e novella non può che iniziare dal Decameron di Boccaccio.
Com’è notorio, la finzione narrativa in cui si snoda la cornice della narrazione prende le mosse dalla voglia di vivere, di sconfiggere la peste e il suo nero carico di morte, che induce l’allegra brigata composta da 10 giovani (7 donne e tre ragazzi) a rifugiarsi nel contado dove, allora, si trovava la chiesa di S. Maria Novella.

Fin da subito, nel discorso di Pampinea, appare chiaro che il gioco svolge una funzione piacevole, per così dire alternativa e concorrenziale alla dimensione letteraria, rispetto alla quale, tuttavia, esercita una potenza dimezzata. Infatti la narrazione  e l’ascolto producono quell’esorcismo, quella rimozione della morte che procura nell’ “attore” come nello spettatore- ascoltatore- lettore, un piacere totale e senza riserve.
Invece, a parere della letteratissima Pampinea, il giocatore di scacchi non prova un piacere totale o comunque il piacere prodotto dal gioco è sempre accompagnato dal turbamento (frutto della necessità di concentrarsi attivamente, di formulare una strategia, a cui si unisce il dispiacere per la sconfitta) (Giornata I, introd. Cap. 28):
Qui è bello e fresco stare, e hacci, come voi vedete, e tavolieri e scacchieri, e puote ciascuno, secondo che all'animo gli è più di piacere, diletto pigliare. Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l'animo dell'una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell'altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo.
(Ci sarebbero da obiettare due considerazioni: il coinvolgimento psichico nelle partite amichevoli è al minimo: predomina, infatti, il piacere estetico, la consapevolezza del piacere del gioco in se. D’altronde nelle partite agonistiche, da torneo, non è forse il brivido della tensione, l’aria che si respira, una delle componenti principali che inducono alla partecipazione?)
All'inizio della terza giornata, la regina Neifile (a turno, ogni giorno, per un giorno, uno dei protagonisti viene insignito del titolo regale che consiste nel disciplinare le narrazioni e nello stabilire i temi su cui verteranno le novelle), dopo che l'allegra brigata ha mangiato, ballato  e cantato presso un luogo meraviglioso che sembra il paradiso terrestre, impreziosito da giardini profumati e incantati, lascia libera a chi  volesse, di andare a riposarsi, ma alcuni, vinti dalla bellezza del luogo,  si fermano a svolgere attività piacevoli, come leggere romanzi o giocare a scacchi: (III, Introduzione):
De'quali chi vi andò [a dormire] e chi, vinto dalla bellezza del luogo, andar non vi volle, ma, quivi dimoratisi, chi a legger romanzi, chi a giucare a scacchi e chi a tavole, mentre gli altri dormiron, si diede.
In (III, Conclusione), in attesa della cena alcuni giocano a scacchi anche donne:
Filomena e Panfilo si diedono a giucare a scacchi
In (VI, Introduzione) si parla degli scacchi:
E quivi, essendo già le tavole messe, e ogni cosa d'erbucce odorose e di be'fiori seminata, avanti che il caldo surgesse più, per comandamento della reina si misero a mangiare. E questo con festa fornito, avanti che altro facessero, alquante canzonette belle e leggiadre cantate, chi andò a dormire e chi a giucare a scacchi e chi a tavole.
In (VI conclusione), Dione viene incoronato re  e le donne scherzosamente, lo mettono  alla prova, per vedere se sa reggere bene le donne, spiritosamente (e non senza un doppio senso) il re dichiara che sono belli  e più preziosi  i re degli scacchi:
Assai volte già ne potete aver veduti, io dico delli re da scacchi, troppo più cari che io non sono; e per certo, se voi m'ubbidiste come vero re si dee ubbidire, io vi farei goder di quello senza il che per certo niuna festa compiutamente è lieta. Ma lasciamo star queste parole: io reggerò come io saprò.
Solo nella finzione  (a teatro, nella letteratura, come nel gioco degli scacchi) troviamo la rappresentazione della morte simulata eroica, senza alcuno spreco energetico carico d’angoscia da parte della nostra psiche.
È a partire dal Decameron  che nella cultura occidentale laica si diffonde una cultura del piacere, della raffinatezza del piacere, in lotta contro thanatos, la paura della morte.
Si potrebbe concludere, citando un passo del padre della psicanalisi che accomuna insieme teatro, letteratura e scacchi (chissà quante teorie saranno state elaborate nello studio di Berggasse 19, a Vienna, di tra una partita  e l’altra?)
(S. FREUD, Considerazioni attuali sulla guerra e la morte, [ 1915], Torino, 1971 52):
là [a teatro  e nella letteratura]troviamo ancora uomini  che sanno morire; sì, uomini anche capaci di uccidere. Là soltanto si verifica la condizione che sola  potrebbe riconciliarci con la morte: e cioè la conservazione, attraverso a tutte le vicissitudini della vita della vita, di una vita, la nostra, come tale intangibile. È troppo triste infatti che nella vita possa accadere come in una partita a scacchi dove una mossa falsa può costringerci ad abbandonare il gioco: con l’aggravante che qui non possiamo contare sopra una seconda partita, sulla rivincita. Nel campo della finzione troviamo invece quella pluralità di vite di cui abbiamo bisogno. Moriamo nella nostra identificazione con un eroe ma insieme anche gli sopravviviamo e siamo pronti a morire una seconda volta in modo altrettanto innocuo, con un altro eroe.
BERNARDO PULEIO

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